ISTAT – Rapporto annuale 2019 – La situazione del Paese

La ventisettesima edizione del Rapporto propone come chiave di lettura quella dell’interazione tra dotazioni di risorse, fragilità, resilienza del “Sistema Italia” e opportunità per creare una crescita robusta, inclusiva e sostenibile.
Si tratta di una chiave di lettura ampia, in grado di valorizzare diversi tematismi e il complesso dell’informazione statistica disponibile.

Più in particolare, vengono approfondite le caratteristiche dello sviluppo recente dell’economia e della società, le dimensioni e la qualità delle risorse naturali e produttive del Paese, le tendenze demografiche e i percorsi di vita, il capitale umano e il potenziale di sviluppo del mercato del lavoro, con una proposta originale di lettura integrata degli aspetti di competitività e crescita e di quelli relativi al benessere, all’equità e alla sostenibilità.

In particolare:

Il quadro macroeconomico

La decelerazione della nostra economia nel 2018 è stata determinata, oltre che dal contributo negativo della domanda estera netta (-0,1 punti percentuali, da +0,3 nel 2017), dall’attenuarsi della dinamica dei consumi che, condizionati dalla debolezza del potere d’acquisto delle famiglie, hanno fornito un contributo alla crescita del Pil sostanzialmente dimezzato rispetto all’anno precedente (+0,4 punti percentuali da +0,9 nel 2017). Nella parte finale dell’anno, la riduzione della propensione al risparmio ha quanto meno contribuito a contenerne gli effetti negativi.

Nel nostro Paese, la ripresa degli investimenti è stata stimolata dalle politiche pubbliche di sostegno alle imprese adottate a partire dal 2015 (si pensi, ad esempio, al maxi-ammortamento e a “Impresa 4.0”).

Anche gli investimenti in costruzioni hanno registrato un’accelerazione nel 2018 (+2,6 per cento rispetto al +1,3 per cento dell’anno precedente), che ha coinvolto sia la componente delle abitazioni sia quella dei fabbricati non residenziali e altre opere; la ripresa si è peraltro protratta nel primo trimestre del 2019.

Lo scorso anno, il mercato del lavoro ha risentito solo in parte del rallentamento ciclico dell’economia. L’occupazione ha continuato a crescere, seppure a ritmi inferiori rispetto ai due anni precedenti, riportandosi su un livello simile a quello pre-crisi. Contestualmente è proseguita con una intensità maggiore la diminuzione del numero di persone in cerca di lavoro. Ne è conseguito un calo del tasso di disoccupazione (dal 12,2 per cento al 10,6 per cento), che rimane comunque largamente superiore a quello dell’area euro. Nel 2018, le retribuzioni lorde di fatto (per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno) sono cresciute dell’1,7 per cento, a fronte dello 0,3 per cento registrato nel 2017. L’andamento complessivo è la sintesi di una dinamica più elevata nei servizi – per gli effetti dei rinnovi nel comparto pubblico, dopo il blocco che si protraeva dal 2010 – e più contenuta nell’industria.

Nel 2019, gli investimenti fissi lordi italiani segnerebbero un aumento marginale (+0,3 per cento) beneficiando in termini contenuti anche delle agevolazioni disposte nel Decreto crescita. Si prevede che il rallentamento di esportazioni e importazioni in volume determini un contributo nullo della domanda estera netta alla crescita.

Lo scenario demografico

Le proiezioni Istat prevedono che nel 2050 la quota di ultra 65 anni sul totale della popolazione potrebbe ulteriormente aumentare rispetto al livello del 2018 (pari al 23 per cento) tra 9 e 14 punti percentuali, secondo ipotesi più o meno ottimistiche. Alla stessa data, la percentuale di popolazione di età 0-14 anni potrebbe mantenersi, nel migliore dei casi, attorno al livello attuale (13,5 per cento), ma anche scendere al 10,2 per cento nello scenario meno favorevole. In parallelo, la quota dei 15 – 64 anni sembra verosimilmente destinata a ridursi al 54,2 per cento del totale, con un calo di circa dieci punti percentuali che equivale a oltre 6 milioni di persone in età da lavoro in meno rispetto a oggi.

Questi cambiamenti, in assenza di significative misure di contrasto, potrebbero determinare ricadute negative sul potenziale di crescita economica, con impatti rilevanti sull’organizzazione dei processi produttivi e sulla struttura e la qualità del capitale umano disponibile; non mancherebbero altresì di influenzare la consistenza e la composizione dei consumi delle famiglie, con il rischio di agire da freno alla domanda di beni e servizi. L’accentuarsi dell’invecchiamento demografico comporterebbe, inoltre, effetti significativi sul livello e sulla struttura della spesa per il welfare: con pensioni e sanità decisamente in prima linea, pur mettendo in conto che gli anziani di domani saranno in migliori condizioni di salute e di autonomia funzionale.

Le risorse del Paese: opportunità per uno sviluppo sostenibile

Le potenzialità di una crescita stabile e diffusa del sistema produttivo si basano anche sulla capacità di trasmettere, attraverso le transazioni tra settori e filiere, produttività, tecnologia e conoscenza all’interno del sistema economico.

Le analisi condotte – di cui questo Rapporto dà ampia e dettagliata documentazione – indicano che, nel sistema economico italiano, la rete di relazioni tra settori è tendenzialmente policentrica. Nei suoi nodi centrali si collocano comparti come quelli di costruzioni, commercio, attività industriali del Made in Italy, trasporti, alloggio e ristorazione. Rappresentando il tessuto connettivo del sistema produttivo in base ai rapporti di scambio e alle transazioni tra i settori, sono individuabili tredici filiere; alcune di esse – a carattere più industriale – si configurano come vere “catene del valore”; mentre altre, contraddistinte dalle attività del terziario, sono più assimilabili a “piattaforme”, trasversali all’intero sistema.

Il rapporto tra emissioni di anidride carbonica e valore aggiunto ha segnato nel 2017 il minimo storico di 178,3 tonnellate per milione di euro. Anche se va ricordato che si tratta di risultati in parte attribuibili al ciclo economico negativo e al complessivo rallentamento dell’attività produttiva, così come è accaduto almeno fino al 2014. In ogni caso, ciò che va considerato compiutamente è il fatto che l’attenzione alle ricadute ambientali non rappresenta solo una necessità, ma anche una opportunità di natura economica.
L’efficientamento dei processi produttivi nello sfruttamento e nella gestione delle risorse naturali è una occasione di innovazione e di miglioramento della competitività per le imprese, e apre nuovi spazi imprenditoriali e di mercato. In questa direzione, la tutela ambientale si configura come un’attività su cui va consolidandosi una rilevante dimensione produttiva: il valore aggiunto delle “Eco industrie” nel 2017 è stato pari a 36 miliardi di euro e al 2,3 per cento del Pil, con una tendenza alla crescita superiore a quella media dell’economia. Il territorio rappresenta una delle dimensioni fondamentali su cui declinare la sostenibilità. È infatti dalle specificità dei singoli territori, a partire dalle loro potenzialità e dalle loro fragilità, che dipende la possibilità e la qualità della crescita: in proposito, un primo aspetto che il Rapporto mette in luce riguarda il modo in cui questo viene utilizzato.

L’intensità e la velocità con cui il processo di antropizzazione si manifesta nel nostro Paese richiamano una particolare attenzione: nel 2017, la Superficie antropizzata lorda – vale a dire la superficie complessiva che ha subito una trasformazione a seguito delle attività produttive e insediative dell’uomo – copre oltre un decimo (11,1 per cento) della superficie nazionale (circa 33.500 km2 ) e tra il 2011 e il 2017, è aumentata del 4,3 per cento, delineando uno scenario ben lontano dall’obiettivo di crescita zero di nuovo suolo artificiale.

Mercato del lavoro e capitale umano

I divari territoriali si sono però ampliati ulteriormente. Il Centro-nord, con 384 mila occupati in più rispetto al 2008 (pari al +2,3 per cento) ha realizzato un pieno recupero, mentre nel Mezzogiorno il saldo è ancora ampiamente negativo (-260 mila; -4,0 per cento). Nel Centro-nord la ripresa è stata trainata, tra il 2013 e il 2018, dalle professioni qualificate, che hanno superato i livelli pre-crisi (+71 mila). Nel Mezzogiorno la pur positiva dinamica degli ultimi anni ha riguardato soprattutto le professioni non qualificate e quelle esecutive nel commercio e nei servizi, mentre resta negativa la dinamica di quelle qualificate.

Nel complesso, una maggiore dotazione di capitale umano si conferma comunque un fattore determinante per la performance individuale sul mercato del lavoro: chi ha conseguito la laurea o un titolo superiore presenta un tasso di occupazione pari al 78,7 per cento, valore maggiore di oltre venti punti percentuali rispetto al tasso di occupazione totale (58,5 per cento) e di quasi 35 punti percentuali rispetto a chi ha al massimo la licenza media.

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